9 settembre 2015

Linguistica candida (30): Ferdinand e il teatro della doxa

"I legami tra i suoni delle parole e i loro significati, i loro fantasmi, le loro connotazioni affettive sono instabili perché sono convenzioni del tutto arbitrarie", si legge in una laterale evocazione del pensiero di Ferdinand de Saussure, comparsa sul supplemento culturale di un quotidiano italiano, qualche giorno fa. E proseguendo: "Non c’è nulla nella natura delle cose che corrisponda alle parole che le designano. Se ci dimentichiamo il nome di tante cose, ciò si deve al fatto che non esiste nessuna ragione naturale che imponesse a quelle cose di avere quel nome".
C'è naturalmente da rallegrarsi, come linguisti, che il nome di Ferdinand de Saussure ricorra (arbitrariamente?) in sedi siffatte e da esserne grati all'evocatore. Lo si dichiara subito e a scanso d'equivoci. Come si dichiara che si sbaglierebbe a valutare simili epifanie e a dirne, come fossero quelle eventualmente còlte in saggi scientifici (se ne prepara peraltro un profluvio, per l'anno che viene: ricorre infatti il centenario della pubblicazione del celebre libro di Saussure che Saussure non scrisse: il Cours de linguistique générale). 
In compagnia dei suoi due lettori (quindi, quasi privatamente), Apollonio non sa tuttavia rinunciare all'occasione di riflettere, solo un momento, sulla buffa alternativa tra incomprensione e silenzio che continua a vigere, quanto al linguista ginevrino. 
Se ne tace, di norma: né si può dire che egli in vita, a differenza d'altri maestri del pensiero moderno, fece qualcosa perché il futuro gli accordasse fama. Non scrisse quasi nulla (appunto, nemmeno quel libro che gli fu intestato), non andò in giro a diffondere il verbo, non fondò scuole, non si agitò in modo da attirarsi quelle scomuniche, quegli anatemi, quelle condanne pubbliche che, nel mercato dell'avvenire, sono pregiatissime. Tenne esoterici corsi universitari su temi peregrini: anche quelli che poi gli valsero una notorietà sovente di seconda mano. C'è da chiedersi, infatti, quanti, tra coloro che ne hanno fatto e ne fanno il nome, si siano veramente sottoposti almeno alla prova delle centinaia di pagine di speculazione complessa e noiosa erudizione che conta appunto il menzionato apocrifo.
Se di Saussure si parla, d'altra parte, vengono fuori sequenze come le citate in esordio. Vi capita che il significato si trovi in compagnia di belle e vacue espressioni, come "fantasmi" e "connotazioni affettive". Lo si ribadisce, non se ne vuole qui menare scandalo: è, semplicemente, la vita e come vita va goduta e considerata, non esecrata, in nessuno dei suoi molteplici aspetti. 
Per Saussure, invece, signifié (che, a differenza di significato in italiano, non è in francese parola di tutti i giorni) fu risultato d'una faticosa ricerca di un termine univoco, perché a suo modo straniante, atto a designare ciò che egli proponeva come un concetto radicalmente e paradossalmente nuovo, in linguistica: l'esito superficiale di quel rapporto (lo chiamò "funzione segnica") che, sulla superficie correlata, si manifesta come signifiant. Participio passato l'uno, presente l'altro: come amato e amante.
E capita inoltre che, per ragionare di lingua, si finisca regolarmente per ricadere sul rapporto tra le "cose" e le "parole". Si vada cioè a capofitto proprio nella trappola da cui egli cercò (disperatamente, va detto) di fare evadere almeno la sua disciplina, la linguistica, o quella che immaginò come tale.
La linguistica, non il senso comune, la doxa: questa è sempre stata invincibile. Saussure ne fu consapevole, come sulla sua scorta dovrebbe esserne consapevole chiunque pratichi o dica di praticare la sua regola rigorosa, la sua osservanza.
Prova a esserne consapevole anche Apollonio, come può e sa. E sa che la doxa si è appropriata ovviamente anche di Saussure e di tanto in tanto, con adeguata moderazione, lo usa come personaggio del suo teatro. Alle sue apparizioni sulla scena, Apollonio applaude.

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