8 luglio 2015

Trucioli di critica linguistica (20): Il nome proprio di Alberto Arbasino

"I due Bianchi, i due Bertolucci, Pea e Carrà [...] Giuseppe De Robertis [...] la bella Rosanna Tofanelli [...] Cesare Garboli [...] Roberto Tassi e Oreste Macrì...".
"Moravia e Morante, i due Guttuso, i due Piovene, Pasolini e Bassani e Garboli e talvolta Gadda".
"Bompiani e Feltrinelli e Garzanti e Scheiwiller [...] Ghiringhelli e Paone e Grassi [...] Ponti, Rogers, Fontana, Morlotti, Gregotti, Baj, Aulenti, Adami, Manzoni [...] da Montale e Quasimodo a Montanelli, Bacchelli, Emanuelli, Anceschi, Soldati, Buzzati, Bo, Testori, Ottieri, Fortini, Tadini, Gramigna, Paci, Musatti, Dal Fabbro...".
"Come con Brandi e Macchia e Praz [...] così ancora con Cecchi e Gadda e Palazzeschi e Comisso".
"Gianna Manzini, Maria Bellonci, Paola Masino, Livia de Stefani, Alba de Céspedes, Elsa de Giorgi".
"Pasolini e Testori [...] Acton, Auden, Connolly, Betjeman, Huxley, Waugh [...] Arpino, Bertolucci, Garboli, Luti, Rossi, Testori, Vasoli [...] Bassani, Pasolini, Citati, Calvino, Sermonti, Siciliano, Campo, Gorlier, Barberi Squarotti, Corti, Forti, Gramigna, Cattaneo, Bortolotto, Manganelli, e vari altri bei nomi".
"Gadda e Contini e Magnani e Bigongiari e Bo e Bassani accanto ai virgulti: Pasolini, Volponi, Testori, Citati, Zolla, Wilcock".
"Pagliarani, Sanguineti, Eco, Manganelli, Barilli, Giuliani, Guglielmi, Curi, Colombo, il sottoscritto".
"Scherchen, Klemperer, Celibidache, Gieseking, Menuhin, Markevitch, Hindemith, Busch, Backhaus, Van Kempen, Příhoda, Francescatti, Magaloff...".
"Malipiero e Milhaud, Celibidache e René Clair, Lionello Venturi e Palma Bucarelli e Valentina Cortese e Giorgio Vigolo e Mariano Stabile...".
"Gieseking, Cortot, Kempff, Haskil, Backhaus, Milstein, Fischer, Benedetti Michelangeli, nonché Bruno Walter".
"Non mancava Piero Manzoni [...]. Né Mario Dondero, Né Carlo Bavagnoli".
"Mino Maccari, Giovanni Comisso, Henry Furst [...] Giovanni Urbani, 'Duddù' La Capria, Giulia Massari, Sandro Viola...".
"Tavolate con la Callas, Marlene Dietrich, Elsa Morante, la Mangano, la Bosé, la Girardot, la Cardinale".
"Che divertimento intellettuale vero, con Marcel Raymond... Jean-Pierre Richard... Georges Poulet... Jean Rousset... Jean Starobinski [...] Roland Barthes".
"La saga dei Gioele Solari, Santorre Debenedetti, Ruffini, Jannaccone, Benvenuto Terracini. La costellazione dei loro successori Bobbio, Abbagnano, Passerin d'Entrèves, Mila...".
"E dunque Pino Pascali, Giosetta Fioroni, Mario Schifano, Mario Ceroli, Franco Angeli - nonché Pietrino Bianchi e Ugo Mulas e Piero Manzoni e Mario Dondero e Franco Berutti".
Questi elenchi sono tratti dal primo quinto del recente Ritratti italiani di Alberto Arbasino. Non sono tutti quelli che, sotto varie forme, ricorrono nel centinaio di pagine e si limitano a esemplificare solo il caso degli antroponimi. 
Agli antroponimi è del resto dedicato unicamente l'"Indice dei nomi" che chiude il volume, impegnandone quasi trenta pagine. Vi si fossero aggiunti altri tipi di nomi propri, come, per menzionare classi ben rappresentate nel libro, i toponimi, i nomi di istituzioni culturali (teatri, musei e così via), i nomi di locali pubblici, i nomi di opere dell'ingegno, i nomi di eventi, l'"Indice", oltre che ancora più imponente, ne sarebbe venuto più aderente alla natura dell'opera che correda. 
Dal punto di vista linguistico, il nome proprio è così il tratto caratterizzante del libro di Arbasino, per giunta, come si vede, spesso sotto l'impressionante forma testuale dell'elenco. La lista non argomenta, non spiega, non attribuisce ruoli semantici e sintattici. Proferisce il nome per sé. Enuncia l'esistenza di ciò cui dà nome. Ne fonda il valore assoluto in modo paradigmatico. 
Che il nome proprio caratterizzi lo scritto di Arbasino dal punto di vista linguistico, non tanto nella sua organizzazione macroscopica (si tratta infatti di una serie di ritratti di importanti personalità nazionali), quanto nel suo tessuto espressivo e nella sua costruzione sintattica, vuol del resto dire che le funzioni che la categoria del nome proprio riveste marcano tale scritto concettualmente e stilisticamente. Vuol dire insomma che, se non si ha un'idea di cosa sistemicamente è il nome proprio, intendere cosa sia e cosa valga l'opera è difficile. Ogni giudizio resta infatti esteriore. Donde una qualche utilità di modesti indirizzi di critica linguistica. 
C'è anzitutto da chiarire che il nome proprio, malgrado l'etichetta categoriale, non è funzionalmente un nome. È una sorta di aggettivo: la riduzione di una predicazione attributiva, di carattere metalinguistico, che dice più o meno "quello (o quella) chiamato (o chiamata) Gianni Agnelli (o Anna Banti)". Lo dice con la concisione tipica dell'espressione umana, donde i brevi e sommari Gianni Agnelli, Anna Banti; o Gianni, Maria, Mimì. L'espressione si perita giustamente di mettere a nudo tutti i fili che tesse, sull'opportuno fondamento che agli esseri umani, che tanto si vantano della loro intelligenza, sia sufficiente il poco.
Per dirla grossolanamente, allora, il nome proprio non è sostanza. È accidente. Una prosa con molti nomi propri parrebbe dunque una prosa non di sostanza ma di accidenti. Come tutti gli accidenti, il nome proprio funge del resto alla perfezione da luogo comune, in ogni testo che lo contiene e in ogni società (o sua parcella) che se ne serve. 
Per rendersene conto, basta cogliere la facile differenza di valore di due espressioni come Dudù (attenzione! non Duddùha fatto popò sul tappeto e Un cane ha fatto popò sul tappeto. Il nome proprio parla a chi sa, per chi non sa, tace. Forse in maniera diversa (ma c'è da chiederselo) da come fa il prologo dell'Agamennone di Eschilo, dal momento che una parola oscura non può fare a meno di alludere al mistero (minaccioso?) di quell'oscurità. E, fuori del cerchio degli iniziati al suo uso, il nome proprio, oscuro, lo è senza dubbio. 
Un cane è democratico: chi parla italiano, capisce di cosa si parla. Dudù (o Duddù, qui proprio non importa) fa subito differenze. C'è chi sa e chi non sa chi sia. Una prosa che fa largo uso di nomi propri pare dunque una prosa che si atteggia come esclusiva e che si fonda sull'idea che la popò di un cane e quella di Dudù (o di Duddù) non sono, proprio grazie all'uso del nome proprio, le medesime. Con il corollario che della seconda vale la pena di interessarsi, meno appunto della prima. E non c'è dubbio che sia proprio così: non tutte le popò sono eguali.
Del resto, Don Tanu mi ha detto di non avere gradito... ha valori espressivi e comunicativi molto diversi da Un anziano signore mi ha detto di non avere gradito... anche per chi, anzi soprattutto per chi, magari proprio non sa chi sia il misterioso evocato e viene così sollecitato a informarsene, per adeguare opportunamente i suoi luoghi comuni a quelli della società di cui mira forse a fare parte e nella quale può anche capitare che l'amico del menzionato Don Tanu voglia tenerlo sottomesso.  
Per ragioni di chiarezza sperimentale (e di luogo comune), l'esempio è connotato socio- e topologicamente: ma basta avere frequentato qualsiasi consorzio umano minimamente strutturato per ricondurlo alle dimensioni domestiche di chiunque lo legga. 
Il nome proprio ha quindi molto da spartire con il potere, vero o millantato, e gli elenchi di nomi propri sono panoplie, in modo allusivo e non troppo mascherato. Sono cataloghi di armi e di forze, come lo era peraltro, anche letterariamente, il catalogo delle navi di omerica memoria: lì, armi anche per la costruzione del testo. 
Per altri versi e allontanandosi da quel modello, tanti nomi propri nell'espressione di qualcuno sono così esibizione di potere se non di potenza. Non fosse altro, della potenza che dà il possesso di tali nomi, che solo a farli, ci si dà tanta importanza. Nomi propri, stavolta, nel senso di fatti propri, nella parola. Una prosa che ne fa largo uso autorizza il sospetto d'essere esibizionista. Si badi bene, nel senso proprio che ne esibisce il possesso e col possesso del nome allude, esibizionisticamente, a quello della cosa nominata.
Ecco adempiuto, si spera utilmente anche per i due lettori di questo diario, il compito meramente servile del frustolo, in vista di una valutazione non esteriore della scrittura di Alberto Arbasino. Ovviamente, da parte di chi se ne intende.

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