29 marzo 2015

Come cambiano le lingue (11): "Il più integerrimo"

Non da oggi "il più integerrimo" è in circolo, sulla scia del già ben ambientato "il più acerrimo". 
Una settimana fa, come un lampo, il primo è comparso sulla bocca di un popolare giornalista e commentatore televisivo. Si è espresso così nel corso di una trasmissione di una rete italiana pubblica nel cui bacino di utenza d'elezione prosperano attenti censori degli usi linguistici che si allontanerebbero dalla buona norma. 
Nei giorni che son seguiti, in proposito, il sismografo delle reti sociali cui Apollonio accede, che per fatti comparabili in altre occasioni segnala grandi movimenti (con commenti irridenti o vibranti indignazioni), non ha però registrato la minima scossa. Nemmeno un post. Nessuna matita rossa e blu in azione. Ideologi del buon italiano e accademici di complemento hanno taciuto.
I loro strumenti di rilevamento sono evidentemente tarati soprattutto sul congiuntivo e sul piuttosto che. O, quando cantano certe sirene, tra "i più integerrimi" cultori della correttezza grammaticale e "i più acerrimi" nemici degli errori (altrui) si sonnecchia (o si finge di farlo?). 
Quanto a "il più acerrimo" e "il più integerrimo", del resto, le grammatiche si sono già pronunciate da un po' per il fatto compiuto e l'opacità della forma superlativa, regolarmente invocata, ha fatto il resto.
Qui, come al solito, non si verserà una lacrima né si menerà scandalo. La lingua del sì non è irrimediabilmente sfigurata da simili inezie; esse non invitano a intonare un mesto deprofundis né a sperare, alternativamente, che l'angelo custode del miserrimo lo renda, nell'occasione, "più miserrimo", mutandosi in angelo vendicatore.
È interessante osservare però che non c'è norma che non vada a gambe levate quando chi s'esprime non percepisce più il valore funzionale di una forma e ciò accade abitualmente quando tale forma si allontana dagli schemi di ciò che è vivo e produttivo: l'andazzo, insomma, tollera le eccezioni ma solo fino al momento in cui non comincia ad averne abbastanza (forse anche per questo il buon Barthes se ne uscì con la famosa sparata di una lingua ineluttabilmente "fascista").
È beatamente ignaro, l'andazzo, del fatto che lingua e vita sono del resto fatte così e continuano a produrre eccezioni. Ne elimini una, fastidiosa, e un'altra, imprevista, ti appare poco più in là, magari più fastidiosa: "Non si comprende come dalla pianura / spunti alcunché. / Non si comprende come dalla buona ventura / esca la mala. / Tutto era liscio lucente emulsionato / d'infinitudine / e ora c'è l'intrudente il bugno la scintilla dall'incudine. / Bisognerà lavorare di spugna su quanto escresce, / schiacciare in tempo le pustole di ciò che non si appiana. / È una meta lontana ma provarcisi / un debito.", scrisse un ironico poeta.
Come della vita, così della lingua, infatti, nessuno ha il controllo totale, neanche chi cavalca o crede di cavalcare i loro andazzi. Ci si figuri chi, meschinello o meschinella, passa il suo tempo a fare segni con una matita rossa e blu, guidato da qualche grammatichetta normativa e quindi, talvolta, provando a preservare eccezioni, talaltra, a annichilirle.
Il criterio che ha ormai aperto la porta a "il più integerrimo", si chiede allora Apollonio quando legge certe geremiadi, non varrà talvolta anche per ciò che solleva invece crudi sdegni? E invece di sdegnarsi (che pare faccia tanto fine ed è invece, a ben vedere, un'attitudine volgare, soprattutto quando diventa "sociale", cioè un andazzo), non sarebbe forse meglio, quanto a ciò che accade, chiedersi non solo come mai o perché (ciò che fanno i curiosi antipatici) ma (come fanno i curiosi simpatici) anche e soprattutto come accade?
Integerrimo non suona più come superlativo neanche alle orecchie di chi scrive nei migliori quotidiani e conciona in trasmissioni di culto. Non resta che farsene una ragione: come di parecchio altro.
Poi, certamente, nella propria vita privata (e nella pubblica che, visto che c'è da esprimersi, in qualche modo ne discende), chi vuole può, con discrezione, tenersi cari i suoi superlativi e non cedere, fin dove riesce, alle (più?) zuccherosissime tentazioni della corrività. Magari, però, non solo alle futilmente formali.

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