30 gennaio 2010

Funzione poetica

La serata è già andata troppo per le lunghe: il libro è interessante ma coloro cui se n'è affidata la presentazione sono stati prolissi. Apollonio tra loro: ha detto inoltre cose piatte e colme di ovvietà. Scrutate dalla cattedra, le facce degli intervenuti al rito sono quelle di chi, passate due ore, è pur sempre disposto al martirio: eroico esercizio della pazienza cui accostuma l'accademia? Torna ancora la parola ad Apollonio e rischia, a detta di chi la elargisce, di non essere la conclusiva: altre, più conclusive, si riservano di procrastinare la conclusione, minacciose. "Buon Cielo, aiutami tu", pensa Apollonio mentre gli si consegna l'incombenza. "Fa' ch'io trovi un modo di porre fine al piccolo strazio di questa brava gente". Dal principio dell'incontro tra giuristi e linguisti (tra i secondi, lui), gli frulla insistente per il capo il verso "Dal dì che nozze e tribunali ed are..." e non sa il perché dell'affiorare lì, dal naufragio delle sue letture liceali, di tale relitto: forse il perché è troppo evidente? Comunque sia, gli si aggrappa per non affondare. Per farne cosa, però? Buono per giuristi e religiosi: ma i linguisti? A nozze, nel verso, per valori formali si può fare equivalere lingue, tuttavia. Proviamo, si dice. "Dal dì che lingue e tribunali ed are...: basta questo verso del Foscolo...". Nessuno fa una piega. Forse per la stanchezza. O forse per pietà, solidarietà, gratitudine. Non importa se consapevole o inconsapevole. "Miglior conclusione..." gli fa da eco. Missione compiuta: contenti i linguisti, e più contenti i giuristi. La paracitazione consente a tutti, esausti, di abbandonare l'aula: "Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme, ultima dea, fugge i simposi".

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