27 luglio 2009

Come cambiano le lingue (1)


"I tabù sono duri a morire" suona il titolo di un articolo di spalla, sulla prima pagina della Stampa di ieri. Prestigiosa notista, titolare di una rubrica televisiva di peso e, un dì, presidente(ssa) della televisione di stato, Lucia Annunziata così esordisce: "Quando si arriva al dunque, ogni paese sembra essere uguale. Razza e gender, sono sempre i primi tabù su cui si ricasca. Cosa c'è di più facile del mettere sotto accusa qualcuno per il colore della sua pelle, e quante volte abbiamo assistito al giochino di sminuire una donna con una semplice battuta sul suo corpo o la sua incompetenza? Il ripetersi di questi episodi è una delle condanne al circuito insolubile in cui è prigioniera la vita quotidiana delle nostre società".
Tabù? Piuttosto cliché, luoghi comuni, stereotipi. Tabù è l'interdetto, ciò che non si può nemmeno menzionare, di cui non si può parlare: su "razza e gender", dice invece l'Annunziata, ci "si ricasca" sempre. "Razza e gender" sarebbero insomma tabù se nessuno osasse (stra-)parlarne: e non è proprio il fatto che se ne (stra-)parli a indignare l'Annunziata e, complice il direttore del giornale per cui scrive, a indurla, col suo scritto, a sollevare l'indignazione di lettori e lettrici?
Provando a penetrare il mistero del "circuito insolubile", Apollonio (lo confessa) è preso dalla vertigine, ma, come modesto amatore delle vicende linguistiche, gongola ed è lungi dal menare scandalo. Al contrario: ecco, prezioso, un cambiamento lessicale in atto. Tabù sta semanticamente migrando, fino a voler dire l'opposto di ciò che significava e ancora significa, per i già obsoleti dizionari italiani e per il vecchio Apollonio. Ed ecco ancora una prova del fatto che le lingue non cambierebbero (o cambierebbero diversamente da come le si vede cambiare), se non ci fosse chi, come l'Annunziata, non sa letteralmente ciò che dice e scrive e, non sapendolo, lo dice e lo scrive in sedi che fanno tendenza.
I due maliziosi lettori di Apollonio staranno certamente pensando che non a caso si diventa oggi giornalista di grido, non a caso presidente(ssa) della televisione di stato. Apollonio, lascia loro l'intera responsabilità di pensieri tanto contingentemente impertinenti. Sa che, mutatis mutandis, così va il mondo, così è sempre andato.

20 luglio 2009

L'attenzione linguistica

L'attenzione linguistica è l'attivazione consapevole delle conoscenze (altrimenti inconsapevoli) che costituiscono la facoltà di linguaggio, come essa si realizza nella padronanza di una o più lingue. L'attenzione linguistica è così la risorsa principale a disposizione d'ogni lettore che aspiri a comprendere un testo (naturalmente, ancor prima, d'ogni ascoltatore: ma, per semplicità, si restringa qui il caso alla lettura) .
Comprendere un testo non è, come si crede banalmente, interpretarlo più o meno correttamente, dal punto di vista filologico, come se fosse un fatto (storico). Invece, è cogliere consapevolmente fasi e modi del processo linguistico che lo ha prodotto (in qualsiasi epoca ciò sia accaduto) e che lo riproduce nel momento in cui esso viene letto. Con consapevolezza della distanza e della prossimità, della differenza e dell'uniformità, leggere è (ri)percorrere un processo: il farsi linguistico del testo.
Si vedono all'opera, nella lettura consapevole, facce complementari del saper fare linguistico complessivo: facce che non esistono per sé, l'una attiva e l'altra passiva, ma soltanto perché l'una è in relazione con l'altra, nell'ipotesi inesausta e sempre da verificare di un'armonica coincidenza.
L'erudizione di critici e lettori specializzati è solo finitura e ornamento di questa indispensabile facoltà, in assenza della quale non ci sarebbe proprio nulla da ornare.

13 luglio 2009

È il vecchio che torna (ovvero: "run for cover")

"Ecco un fatto apparentemente incontestabile: non c'è niente nella parola «cavallo» che assomigli al cavallo; in altre lingue si usano parole molto dissimili, come «horse» o «Pferd». Questa è la tesi fondamentale dell'«arbitrario del segno» (linguistico); espressa da Ermogene, il personaggio del Cratilo platonico, contestata da Cratilo stesso, ripresa da de Saussure e assurta a testata d'angolo della linguistica moderna".
Si sa: sulle gazzette (come nei blog) non si può stare a sottilizzare: si perderebbero lettori. E sul recente supplemento domenicale, dedicato a libri e cultura, dell'organo di stampa della Confindustria non si può dire certo che Roberto Casati sottilizzi, col suo trafiletto intitolato "Se le parole somigliano alle cose".
C'è voglia di ritorno all'ordine, oggidì, e le "cose", con la loro solidità, vanno molto di moda tra i filosofi. Run for cover è il motto e stanno tutti correndo al riparo: sotto il tetto, che evidentemente ritengono sicuro, delle ontologie. Immemori dei terremoti del passato. Incapaci di immaginare quelli del futuro.
Del resto, perché preoccuparsi dei terremoti? Le cattive idee sono immortali. Finiscono periodicamente sotto le macerie degli edifici filosofici che si sono prestate a tirare su. Per un po', le si vede circolare peste e infarinate. Non ci mettono molto però a riscuotersi e a occupare con le loro invadenti rigidità tutti gli spazi su cui possono speculare. Ricominciano così a fare i soliti danni: allo studio scientifico del linguaggio e alla crescita di una diffusa consapevolezza culturale di cosa esso sia, ne fanno da millenni. Nella sua episodica modestia, il breve passaggio in apertura è esemplare: non esita infatti a devastare, appiattendola agli occhi del mondo, la radicale differenza tra l'Ermogene del Cratilo e Ferdinand de Saussure.
Il linguista svizzero si vede così iscritto d'ufficio da Casati tra coloro secondo i quali la lingua è solo una variabile nomenclatura convenzionale delle cose. Per convenzione o per natura: è questo il dibattito cui, dato per assodato il carattere nomenclatorio della lingua, si riferisce infatti Casati. Ma tale dibattito ha poco da spartire con la nozione saussuriana di "arbitraire du signe", che è una caratteristica del "lien unissant le signifiant au signifié", cioè la qualità d'una funzione, come Saussure intende appunto "le signe linguistique". Creandosi processualmente, questo crea al tempo stesso le due facce sotto le quali si manifesta: un significato e un significante.
E invece Casati (ma è lungi dall'essere solo) attribuisce a Saussure una delle due forme tradizionalmente prese da una cattiva idea: l'idea che la lingua sia una nomenclatura delle cose. Proprio quella (ed è una beffa) che Saussure aveva privatamente cercato di estirpare dalla testa dei suoi quattro studenti, giustamente consapevole che dalla testa di certi filosofi (e se ne hanno sempre nuove prove) fosse impossibile farlo: "Pour certaines personnes la langue, ramenée à son principe essentiel, est une nomenclature, c'est-à-dire une liste de termes correspondant à autant de choses... Cette conception est critiquable à bien des égards. Elle suppose des idées toutes faites préexistant aux mots...; elle ne nous dit pas si le nom est de nature vocale ou psychique...; enfin elle laisse supposer que le lien qui unit un nom à une chose est une opération toute simple, ce qui est bien loin d'être vrai".

(Si potrà poi flebilmente sussurrare qui che farebbe la figura di un equino lo studente che, interrogato sul tema dell'arbitrarietà saussuriana, provasse ad argomentarla servendosi dell'esempio della variabilità interlinguistica delle designazioni del cavallo? Darebbe infatti prova di non avere chiaro il problema, di confondere fattispecie storiche - di cui, volendo, si potrebbe far carico a Babele - con una questione teorica - o, se si preferisce, metafisica. Lo si dovrà spiegare ai filosofi? Si dovrà spiegar loro che, anche se la designazione del cavallo fosse unica per tutte le lingue del mondo, passate, presenti e future, la tesi saussuriana dell'"arbitraire du signe" resterebbe intatta? Che, per converso, la variabilità di designazioni non è invocabile come prova sperimentale a suo favore né, a dire il vero, a favore di una qualsiasi tesi convenzionalista?)

9 luglio 2009

Il nuovo che avanza

Lo conosco da qualche anno: è un "arcudaro". Era poco più di un bambino: ma serissimo. Saliva e scendeva per le ripide scale alla guida d'un mulo carico di vettovaglie e di bagagli per i residenti stagionali: tutti istruiti, tutti animalisti, qualcuno, naturalmente, nudista. Deposta la soma, sul mulo, capitava di vedercelo anche in groppa. O, in versione marina, di vederlo scorrazzare con un piccolo fuoribordo, destinato, a noleggio, ai giri dell'isola di visitatori occasionali: mediamente istruiti, qualcuno animalista, pochi, naturalmente, nudisti. "Ciao, Bartolino". "Ciao": così da qualche anno. Stagione dopo stagione, è diventato un giovanotto, serissimo. Lo incontro: "Ciao, Bartolino". "Salve".

[V. il post Intolleranze (2), del 20 maggio 2009]